Читаем онлайн «Скупой в своих мыслях »
- 123 . . . последняя (23) »
Ma perché da parti uguali erme divise
non più ti soccorrono fermi i tuoi pensieri
sopra i tuoi fiori nella medesima
aridità che ora scintilla essa balena
e ti accorgi di essere più solo.
Avaro nel tuo pensiero,
la stessa sostanza arida t’invischia
solo per tuo diletto.
Erme cinte di rose
appaiono già tutte le tue cose.
Nato e a lungo vissuto appartato a Melicuccà (Reggio Calabria), Lorenzo Calogero (1910-1961) studiò Ingegneria e poi Medicina a Napoli, dove conseguì la laurea nel 1937. Esercitò saltuariamente la professione medica fino al 1955, dedicandosi intanto alla filosofia e alla poesia. Tentò di stabilire contatti con poeti, riviste e editori importanti ma senza successo, mentre la scrittura prendeva sempre più la forma di un destino e di una vocazione assoluti. È morto in circostanze mai definitivamente chiarite, nella sua casa di Melicuccà, nel marzo 1961. Dopo la morte, nel 1962, scoppiò un vero e proprio caso letterario e Calogero venne salutato come un nuovo Rimbaud. Poi, improvvisamente, di nuovo l’oblio. La storia letteraria ha lasciato troppo a lungo nell’ombra una delle voci più alte del Novecento poetico italiano.
Poesia / 54
Lorenzo Calogero
Avaro nel tuo pensiero
A cura di
Mario Sechi e Caterina Verbaro
Il progetto editoriale per la pubblicazione dell’opera
Avaro nel tuo pensiero di Lorenzo Calogero
viene realizzato grazie al contributo di UBI Banca Carime,
e attraverso la cooperazione scientifica fra l’Università della Calabria,
che custodisce l’Archivio del poeta,
e l’Università degli Studi Aldo Moro di Bari.
© 2014 Donzelli editore, Roma
Via Mentana 2b
INTERNET www.donzelli.it
E-MAIL editore@donzelli.it
Progetto grafico di Carlo Fumian
ISBN 978-88-6843-344-4
Indice
«Avaro nel tuo pensiero»: la poesia come surrogato della felicità
di Caterina Verbaro
Nota al testo
di Mario Sechi
Ringraziamenti
Avaro nel tuo pensiero
Sebbene le clemenze
Sono in sogno
Se i moniti sono solidi
Se i giorni sono profughi
Decaduto ogni giorno
Non vale gioia densa o silenzio
Forse da autunnali chiome
Ti siedi fra noi
In questa sera in cui s’accendono
Sono moniti gli accenti
Lugubri magie sono le tue parole
La verità comprende
Scarno saliva un lume
Ogni minuscolo attimo
Quando mi maraviglio
Ora so. Poteva pure non essere
Forse perché volubile
Non mi piace intendere
Sento capricciosi eventi
A prova non più erano
In segni sopra le mutate cose
Perché accadrà crudelmente
Quando i monti
Tu potevi non chiamarmi
Forse l’annuncio vano delle parole
Non so quali siano
Un punto, una sagoma
Non mai il mio riso
È permanentemente vero
Come acqua cedua
Perché da tenui parti
Se savio mi compongo
La vita chiomata, al largo, dei sogni
Son distici a catena e l’innegabile clemenza
Se accanto al declinare
Non mi ricorderò mai più di te
Gracili corolle erano
Se qualcosa timido risuona
Ritorna il sogno. Non più mancare
Quando con impalpabili gote
Se passibile l’eco
Perché amalgame non siano
Puoi ora ai margini
Quando non più lugubre
Ricordo cosa fosse simile alla ruota
Se mutate ombre
I traguardi frugano le ore
Non più ti domando
Mi conviene sotto archi
Forse non fu più che sogno
Il sole delle case ha invaso le cime
Per quanto gli screzi sian folti
Tu pure sapevi nei segni
A rilento le stesse sostanze
Non posso muovermi
Quando remoto al dolore
Quando la vita fu una rapida scintilla
Non posso dissuadermi anch’io
Non era più una pallida rosa
Sono arsi i movimenti
Non altra sagoma era
Odo qualcosa con ordine
Qua conobbi quanto fragile era
L’aria grigia esterrefatta
Scende una chiarità oscura
Cadono vani sogni
Quali beati lampi
Non più mi ricordo di te, né più ritorno indietro
Forse perché partecipi di un modo esatto
Sono minacciosi i giorni
Non sono per te più di rimando
Sono risospinto indietro
Gamme lucenti sui tuoni
Quando dai rigori chiusi
Intima una vita liquida
Nella vita una piega risuona
A discreto suono
Gemme roride sono una nascita
T’appoggi o tu sei simile
Quando da monotone cose
Avaro nel tuo pensiero
Roso il sangue, una verbena
Vaghe gioie diafane
Non voglio ricordarmi più di te
A parti uguali, non più divise
Sebbene ombre vive
Fumigarono i giorni
Perché molte cose si ebbero
So di non esserti nato accanto
So che non occorre tempo
A tardo strazio la notte era
Sopra mormorii quadrati
Lontano sui misteri guardi
I sogni non sono proclivi
Rigidamente inclina
La selva conosce corrosa se stessa
A mutati sensi i venti gridano
La pioggia sorridente
Naufraghe e lente le ore discorrono
Alla fine i tuoi pensieri vagarono soli
Quando densa una pace era già una schiera
Perché di anno in anno
Ancora sogni. L’anima vagante
Se di mattino ti alzi
Fuggevoli gridi tocchi
Non volubili onde
Sapevi addormentarti
Sui monti sapevi vagare
Io sapevo esserti diverso
Il tempo della inumidita distanza
Quando qualcuno si riconsola
Pure perché il sapere sia più giusto
La fonte era umida degli occhi
Per quanto egli amò con gloria
Erano rose d’inverno
Forse di te non apprenderò
So, non valeva altra gioia
Quando da la solitudine
Se preso dalla sagoma
Nuvole sono già strano enigma
Non valgono mutevoli onde
Non altra lagrima amata
Se disperatamente l’anima
Non altra aria ebbe senso
In una triste ora
In erranti canti un usignolo
Quando ne l’ineluttabile chiarezza
Se rievoco ricordo cos’era
Non era più aereo, fuggente
Se di vetro il tuo viso
A somma nudità dell’essere
Naufraghi erano i gridi
Perché un povero cuore
Notizia su Lorenzo Calogero
«Avaro nel tuo pensiero»: la poesia come surrogato della felicità
di Caterina Verbaro
Beato chi ha trovato per tempo il suo centro di vita e che veramente si trova al centro di essa! Non proverà un desiderio spasmodico di poesia, di questo surrogato della felicità, ma quanto labile.
Lorenzo Calogero, Quaderni inediti, 1936
In una delle tante riflessioni sulla poesia annotate nei suoi quadernetti neri da scolaro, Calogero diagnostica lucidamente la difficoltà di condividere il proprio universo poetico, così dolorosamente segnato dall’intransitività:
L’impossibilità di scrivere poesia proviene principalmente dall’accorgersi di non possedere dei simboli che siano validi universalmente, simboli cioè che possano essere assimilabili in tutto agli umani segni attraverso cui si compie e si trasmette la comunicazione1.
La mancanza e la ricerca di tale condivisione simbolica universale segna come uno stigma i versi e la vita di Lorenzo Calogero: la sua vicenda biografica e poetica, indissolubilmente intrecciate, sono ugualmente connotate dall’isolamento, dal soliloquio, dal mancato ascolto e riconoscimento. Privata di un centro che ne sostanzi il fondamento stabile, l’esistenza di Calogero cerca incessantemente in una poesia altrettanto defocalizzata il proprio «surrogato della felicità»2.
Nato nel 1910 nel piccolo paese calabrese di Melicuccà, dove nel 1961 morirà di abbandono, probabilmente suicida, Calogero spende la sua intera esistenza in una pratica di scrittura fluviale e ininterrotta, di cui fa fede la grande quantità di versi solo in parte raccolti e pubblicati tra gli anni trenta e gli anni sessanta. Oltre alle prime raccolte giovanili, poi riviste nel 1956 in Parole del tempo, Calogero pubblica negli anni cinquanta, sempre presso la piccola sigla editoriale Maia di Siena, nel più totale disconoscimento critico, le sue opere più importanti, Ma questo… (1955) e Come in dittici (1956). La sua consacrazione postuma si deve alla comparsa nel 1962 del primo volume delle Opere poetiche, pubblicato con grande risonanza subito dopo la sua morte dalla Lerici, e poi seguito da un secondo volume nel 1966. Quello che negli anni sessanta fu definito il «caso Calogero», puntò mediaticamente a costruire un profilo mitologico quanto patetico del
- 123 . . . последняя (23) »